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4 MODI IN CUI CAMBIA LA VITA DI CHI SEGUE IL CERVELLO IN FUGA

  • Laura Bertolini
  • Jul 20, 2015
  • 7 min read

Ho letto un articolo blog di R.V.J.Ward dove si racconta di come la sua vita sia cambiata a seguito della sua decisione di espatriare. Un articolo che mio marito condivide, che può capire in pieno e che, a tratti, riguarda anche me. La vita di chi parte con un obbiettivo ambizioso, in cerca di carriera, di soldi, benessere, è un viaggio differente da quello di chi, come me, decide di seguirlo. Senz'altro lasciare l'Italia nel 2009 è stato salvifico per tutti. Onestamente non posso dire di aver avuto molte altre alternative, ma certo io non avevo un obbiettivo preciso negli Stati Uniti. Ho seguito il viaggio di un ricercatore, meritevole di andare "oltre", sprecato in un assegno di ricerca senza contributi. Lo rifarei, se avessi quella stessa consapevolezza e lo stesso entusiasmo. Io ho un Visto non lavorativo, che mi permette di vivere là finché anche mio marito rimarrà a lavorare in California. La meta è verde, calda, accogliente e anche molto interessante. La mia idea era di fare un'esperienza, della durata di pochi anni, per poi tornare almeno in Europa, perché dall'Italia, purtroppo, si scappa e basta. Io, figlia unica, legata alla famiglia come il nodo del legno che fuoriesce da terra ma sta ben saldo alle radici, non avrei mai prospettato di continuare la mia vita dall'altra parte del mondo. Una parte bella, ricca, tranquilla, una valle abbracciata dalla Sierra Nevada. Oppure una fossa, dove non piove e sono tutti affaccendati a far soldi, programmi, comprare cose e case, stare nel proprio mondo o, più semplicemente, passare di lì per via dell'Università e poi ripartire per altre mete. Un pozzo e un porto. Verde e cocente. Ho investito ogni cellula di me nell'impresa quasi epica d' imparare tutto daccapo ed inserirmi. Direi di avercela QUASI fatta.

IMPARANDO UNA LINGUA STRANIERA.

Siamo arrivati a Davis e mio marito è andato a lavorare. Sono rimasta sola nell'appartamento preso in affitto, mi sentivo confusa, anche un po' spaventata. La lingua era senz'altro lo scoglio più duro. Mi sono iscritta a un corso di lingua inglese per immigrati, ho imparato la strada da fare per andare da casa a scuola e ho cominciato ad apprendere. Strade, prime parole, primi volti e nomi. In sei mesi già ero in grado di comunicare, anche grazie all'insegnante divenuta mia amica. Divenuta anzi il mio unico punto di riferimento insieme a mio marito che c'è sempre stato poco a casa con me. Lavorare all'estero non dà pause. Anche quando mio marito è fisicamente a casa, il suo cervello continua a lavorare in ufficio. Mi sono arrangiata da sola quindi. Ce l'ho fatta! Primo punto a favore. Certo poi; una cosa era parlare con una persona che mi conoscesse, consapevole dei miei limiti lessicali, un'altra cosa erano le cene con i colleghi di mio marito, che parlavano in slang veloce e ridevano, senza che io potessi capire niente. Sono stati momenti di enorme crisi, dove avrei voluto rimanere chiusa in casa perché per me quello era solo chiasso. Sono stati i momenti in cui avrei voluto prendere i miei amici italiani e trasportarli al tavolo accanto. Ho pianto. Moltissimo. Ho evitato di andare a chiudermi in gruppi d'italiani precostituiti, perché dovevo assolutamente sforzarmi d'imparare la lingua Inglese. Il cervello spaventato cerca sempre soluzioni facili, io ho preferito forzarmi d'imparare. Con il tempo e la pazienza, dopo circa un anno e mezzo, sono riuscita anche a capire qualcosa in quelle conversazioni da bar e dopo tre anni sono stata capace di capire anche di cosa stessero parlando, persone a caso, sull'autobus. Oggi, a distanza di sei anni, penso di riuscire a capire quasi tutto. Certo che il livello del mio vocabolario è bloccato a un punto che non va ne' avanti e ne' indietro perché sono diventata mamma e non ho più modo di studiare o praticare. Vedremo poi perché nei prossimi punti. AFFRONTANDO IL CAMBIAMENTO.

Cambiare è la parola chiave a cui una persona che va all'estero deve abituarsi. Non c'è più niente di fisso, tutto è in movimento e in cambiamento e sono processi così veloci che, a me, sono sembrati cazzotti nello stomaco finché poi, finalmente, ho imparato a conviverci. Il cambiamento spaventa chi non partecipa al cambiamento. Ho superato il male dell'amico che si dilegua, che sta all'altro capo del mondo a colpevolizzarmi, accusarmi, aspettarsi sempre qualcosa, incapace di accettare che la mia vita è altrove, le famiglie maligne che mi danno della mantenuta e pure quelli che insistono nel considerarmi un cestino del vomito. Superare tutto questo significa uscire dalla mentalità ristretta, per imparare a vivere nella dimensione grande. In molti mi pensavano (e mi pensano) ricca, in qualche piscina condominiale, col fisico della bambola e il cocktail in mano. Niente di più lontano dalla realtà. L'abbrutimento fisico e mentale è una tappa che arriva appena ci si rende conto di non riuscire a trovare la propria dimensione. Di non avere amici in loco e di non sentirsi più affini ai molti con cui si passavano le giornate in patria. In questa fase o si scappa o si decide di andare avanti. Secondo momento di sopravvivenza, quindi, sopravvivere alla nostalgia di chi eravamo. Non è facile buttarsi nel nuovo mondo, uscire di casa a cercare interessi, fare qualcosa che ti tenga occupata anche senza far salario a fronte del limite di Visto. Arrabattarsi per fare un'amicizia, sentendosi a volte ridicoli come se si fosse al parco giochi a 3 anni e " ciao, come ti chiami...". Non è così semplice per chi non va a inserirsi in un contesto che lo aspetta, per chi si deve inventare una ragione quotidiana per trascinarsi fuori casa. Del passato ho selezionato le persone, eliminando quelle di cui non ho più bisogno. Intanto nel nuovo mondo gli amici sono solo di passaggio. Sarà forse una caratteristica delle città universitarie, ma io in 6 anni non ho mai avuto un amico stabile che rimanesse a vivere dove vivo io. Tutti andati altrove tranne me. Ad oggi sono rimasta sola, non ho più l'entusiasmo dell'inizio, sono entrata in un processo mentale di attesa/attiva. Attesa che arrivi qualcuno, conscia del fatto che se ne andrà. Nel mentre devo crescere la mia bambina, cercando di trasmetterle l'attaccamento al prossimo anche se non abbiamo persone intorno, questo perché considero i rapporti umani la più grande ricchezza. Per il resto attendo...una vacanza a casa. "Casa", che per me è ancora in Italia, dove ci sono le poche persone che mi sono rimaste accanto quotidianamente nonostante le distanze, e dove vado una volta l'anno. INSERENDOSI IN UNA REALTÀ DIVERSA.

Portavo con me un'esperienza trentennale dove mi ero abituata a pensare che il medico è "di famiglia", che all'ospedale ti accolgono per diritto, che l'istruzione è aperta a tutti e ci sono gli asili e le scuole materne, che le famiglie stesse sono una rete primaria di aiuti e poi ci sono le reti amicali, ci sono i luoghi di aggregazione, le piazze, i Comuni con i centri d'ascolto, l'idea di mutuo-aiuto, di vicinato, di sentimenti veri (siano essi belli o brutti ma espressi) etc etc. Vivo ora in una realtà dove il medico mina i tuoi risparmi, l'ospedale è un lusso, asili scuole università costano cifre inenarrabili, le banche sono il tuo aiuto, il vicinato ha l'allarme anzitutto, gli amici sono spesso persone coi sorrisi sparati a pieno sole che dentro ti ucciderebbero, qualcuno dice " How're ya'??" ma pensa "lurida italiana impestastrice di malattie", le piazze sono centri commerciali e non c'è idea di aggregazione. Fatta eccezione per i Nativi Americani che mi hanno accolta sei anni fa e che, nonostante non viviamo vicini di casa, almeno l'illusione di "gruppo" me l'hanno data, salvandomi dall'esclusione pura. Ci sono molte cose positive in questo imparare a fare senza di questo e di quello. C'è che alla fine ho imparato a fare tutto da sola, a contare solo su me stessa, a poter finalmente decidere per conto mio senza rendere conto a nessuno. Ho imparato ad afferrare le nozioni importanti e lasciare andare quelle che non servivano più o che erano in disaccordo con quello che penso. Ho avuto modo di conoscere altre culture e nuovi cibi. Poi sono rimasta da sola con me stessa, cominciando ad apprezzarmi al di là dei pregiudizi e dei giudizi, a costruire un mio "io" interiore capace di salvarsi e di salvare l'essere umano che ho generato. Ho avuto l'onore di accettarmi finalmente per quella che sono, di riscrivere la mia persona daccapo, di organizzare la mia vita secondo i miei tempi, senza occhi sempre a controllare, senza troppi consigli. Sto crescendo una figlia con le mie forze, sono stanca sì, sfinita direi, ma mi sveglio ogni mattina carica dell'energia della sopravvivenza e della dedizione, facendo tutto questo da sola. Si sappia che è tanto tutto questo, anche se non si parte con la 24 ore in mano per andare in ufficio. Ogni grande rinuncia che si fa, conduce a una piccola conquista. Il punto di successo è che, dalla mia dimensione, non ha più nessuna importanza il fatto che i sacrifici vengano riconosciuti o meno. Quello che conta è mantenere la calma e il sangue freddo, non ci si può più perdere. CONQUISTANDOSI UNO SPAZIO PROPRIO.

Non posso dire di aver ancora raggiunto questo obbiettivo. Ancora faccio troppa resistenza, sono una outsider, ma sto maturando l'idea di trovare la mia dimensione anche laddove sembra non esistere. Tutti i rapporti, coppia inclusa, hanno risentito di scosse distruttrici, di assestamento e di movimenti di riassetto. Mi sono presa una lunga vacanza nei luoghi di origine, a contatto stretto con tutto quello che per me è rassicurante. Ho meditato a lungo, cercato di capire cosa si potesse fare per riappropriarsi delle qualità personali. Da quando vivo all'estero, ho subito uno spietato processo di spersonalizzazione: la mia laurea di assistente sociale non è riconosciuta, studiare per parificarla costerebbe troppi soldi e non so se veramente me ne valga la pena, la mia arte fatica a inserirsi poiché prodotta esclusivamente in Italiano, ma non posso darmi per vinta. Il fatto che il gioco sia duro non mi impedirà di reagire. Per ora sono stata impegnata a sopravvivere e far andare avanti gli altri. Questa è l'ora di tirare fuori gli artigli! Va avanti mio marito, ottima carriera, tante soddisfazioni. Va avanti la mia splendida figlia che è piccola e dipende esclusivamente da me. Va avanti la casa in affitto, il giardino e andrà avanti anche l'orto. Io sono rimasta indietro, a spingere. Durante questa lunga vacanza, tranquilla nelle mie radici, potendo distaccarmi un momento dalla mia bimba che sta felice anche con i nonni, ho cominciato a pensare a me stessa. Capisco che indietro non si riesca a tornare, nonostante abbia valutato anche questa opzione, quindi mi sono messa in ascolto di quello che è unicamente mio. Ciascuno di noi ha un talento, ne ho uno anche io. Il fatto che sia considerato inutile o utile, dipende solo da quanto si crede nella sua funzione. Ho deciso di credere nella mia poesia completamente, come credo al mio essere viva e vegeta nonostante tutto. Utilizzerò il mio talento, posso farlo anche stando lontana, nell'isolamento, producendo quello che ho sempre fatto e che mi è rimasto aggrappato alle vene in ogni situazione. Il mio talento, quel dono che ho ricevuto da bambina. Non dovesse apportare altro che soddisfazione personale, godrò di quella. L'importante è conquistarmi uno spazio. Non sarò più solo un appoggio, ma costruirò il mio angolo di mondo che qualcun altro appoggerà!


 
 
 

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